La scienza espressa

“Piacere, sono una ergonoma!”

Quando mi presento come ricercatrice ed ergonoma, spesso vedo un’espressione di confusione nei volti degli ascoltatori. Alcuni pensano addirittura di aver sentito “economa”! Dopo un momento di smarrimento, iniziano a farmi domande su finanza e bilanci, finché non chiarisco che ho detto “ergonoma”. A quel punto, la reazione più comune è: “Ah, come le sedie ergonomiche o i materassi!” Ed ecco il momento eureka! Molti immaginano che il mio lavoro si limiti a testare sedie o a consigliare posture corrette.

È vero, l’ergonomia riguarda anche questi aspetti, ma c’è molto di più dietro. Derivando dal greco “ergon” (lavoro) e “nomos” (legge), l’ergonomia è conosciuta come la “scienza del fattore umano.” Studia come l’attività umana si relaziona alle condizioni ambientali, agli strumenti e all’organizzazione, con l’obiettivo di adattare queste condizioni alle esigenze delle persone. Se in passato si concentrava sulla sicurezza e l’efficienza nel lavoro, oggi l’ergonomia si è evoluta, rispondendo a una crescente richiesta di salute e benessere, contribuendo a progettare oggetti, servizi e ambienti che rispettano i limiti umani e potenziano le capacità.

Ma cosa fa una ricercatrice in questo campo? Mi piace pensare all’ergonomia come a una cassetta degli attrezzi in un’officina, dove ogni strumento è progettato per migliorare il benessere delle persone. Personalmente, mi occupo di studiare come creare ambienti in cui l’essere umano possa trovare equilibrio con tutto ciò che lo circonda.

Questa scienza si articola in tre rami principali: l’ergonomia fisica, che si concentra sull’interazione tra le persone e le sollecitazioni ambientali, considerando le caratteristiche anatomiche e fisiologiche; l’ergonomia cognitiva, che esplora i processi mentali che guidano le attività umane nell’interazione con strumenti e sistemi; e l’ergonomia organizzativa, che ottimizza i processi in contesti complessi per promuovere partecipazione e cooperazione.

Ogni esperto di ergonomia lavora in uno o più di questi ambiti per migliorare il benessere umano. Questa scienza è alla base del “human-centered design”, un approccio che implica progettare tutto – dagli oggetti agli ambienti e ai servizi – con una forte attenzione alle persone.

I principi chiave di questo approccio includono la focalizzazione sulle persone e sul loro contesto, la risoluzione dei problemi alla radice per prevenire che si ripresentino, e l’implementazione di interventi piccoli e graduali per migliorare continuamente le soluzioni. Prototipare, testare e perfezionare sono fondamentali per garantire che le risposte siano veramente adeguate alle esigenze degli utenti.

Vi siete mai chiesti perché due modelli di smartphone, anche se lanciati a pochi mesi di distanza, presentino differenze nei dettagli? Dietro a queste piccole variazioni c’è il lavoro di chi studia l’usabilità per rendere l’esperienza degli utenti più intuitiva e piacevole.

Quando qualcuno mi chiede cosa cerco nel mio lavoro, rispondo provocatoriamente: “Io cerco gioie… e mi occupo della felicità.” Si tratta della felicità dei lavoratori. Come ricercatrice in medicina del lavoro, mi dedico a migliorare la vita lavorativa delle persone, prevenendo problemi come il mal di schiena per chi lavora al computer o lo stress cronico che ci prosciuga. Utilizzo l’ergonomia fisica per analizzare le condizioni di lavoro e identificare i fattori di rischio, attraverso studi che includono monitoraggio fisiologico e l’utilizzo di dispositivi indossabili per misurare parametri come la frequenza cardiaca e respiratoria.

Per spiegare il mio lavoro, continuo a paragonare l’ergonomia a una cassetta degli attrezzi. Gli esperti di ergonomia attingono ai diversi rami della disciplina per raggiungere un obiettivo unico: il benessere delle persone. Ma negli ultimi tempi ci siamo accorti che, per quanto ci sforzassimo di “riparare” tutto, non-sempre stavamo intervenendo nel modo giusto. Risolvevamo i problemi individuali senza considerare il quadro generale: il contesto sociale, le implicazioni ambientali, l’impatto culturale. È come migliorare il comfort di una sedia senza chiederci se quella stanza fosse adatta a ospitarla o all’impatto di quella sedia su tutto il sistema. Ecco perché è emerso un nuovo approccio recentemente, che amplia il concetto di “human-centered design” verso una visione più olistica: non basta mettere al centro l’uomo! Dobbiamo ripensare le soluzioni affinché giovino a tutta l’umanità e all’ambiente che ci circonda!

Siamo quindi nella transizione da un approccio centrato sull’uomo a uno più ampio, centrato sull’umanità. Promossa da figure come Don Norman, uno dei pionieri dell’ergonomia, questa visione invita a considerare le implicazioni delle scelte progettuali non solo per l’individuo, ma per l’intero ecosistema. Dobbiamo valutare le conseguenze sociali, ambientali e culturali delle innovazioni, per garantire benefici concreti e duraturi per le comunità e l’ambiente.

Questa transizione verso una visione ecosistemica richiede un cambiamento di mentalità e innovazioni che incoraggino l’empatia e la co-creazione di soluzioni sostenibili. In ambito sanitario, ad esempio, significa progettare servizi e tecnologie che non solo assicurino l’accesso equo alle cure, ma che rispettino anche la privacy e l’autonomia delle persone. L’obiettivo è promuovere soluzioni che riducano al minimo i rischi e massimizzino i benefici per tutti, mantenendo sempre al centro il benessere umano in armonia con l’ambiente.

L’ergonomia va ben oltre le sedie e le scrivanie: è una scienza dedicata a migliorare la qualità della vita in ogni istante della nostra quotidianità. Ma vi siete mai chiesti come le piccole scelte progettuali possano plasmare un futuro più sano, equo e sostenibile per tutti noi?

 

Federica Masci

Biosystems Department, Ku Leuven, Leuven e She is a scientist

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