La scienza espressa
di Nuova Lettera Matematica

Teste piene o teste ben fatte? Per una didattica umanistica della fisica

La crisi della scuola, tema all’ordine del giorno, ha una delle sue ragioni principali nella difficoltà di riportare nelle aule un pizzico di pathos per ovviare a una didattica drammaticamente priva di eros comunicativo. 

Questo contributo è  dedicato alla didattica della fisica nelle scuole superiori, osservata attraverso l’analisi di alcuni libri di fisica tra quelli correntemente adottati. Un’annotazione diaristica di Leonardo Sciascia ci consente di puntare senza preamboli al cuore delle questioni: “A cena con un fisico. Sto in silenzio ad ascoltare i suoi discorsi sulla scienza. Turbato in principio, poi annientato. […] Orrore, amici miei, orrore”. 

Ecco all’incirca quello che pensano molti studenti che si trovano di fronte a cultori della materia incapaci di parlare di scienza in modo adeguato all’uditorio, di giustificare quello che si fa in fisica in un modo che non sia enfatico-celebrativo o addirittura mitizzato, e men che meno in grado di rendere conto del perché lo si fa o perché lo si fa in un certo modo e non in un altro. Si è così realizzata la spaccatura presagita da Hannah Arendt più di mezzo secolo fa tra  scienziati e docenti afasici e masse di non specialisti tagliati fuori dalla benché minima comprensione del fare scientifico. 

Allo studente ci si rivolge con uno stile pragmatico, di soli fatti ed equazioni che dà ai testi un impianto manualistico, nel senso più deteriore del termine, da prontuario, collazione di ricette e di notizie assortite senza un collegamento. E non sembri fuori luogo farne una questione di stile perché, come ci ricorda Calvino, “stile non è sovrapposizione d’una cifra o d’un gusto, ma scelta di un sistema di coordinate essenziali per esprimere il nostro rapporto col mondo.”  E senza cura linguistica, che è cura concettuale, rimane il dato grigio di fenomeni e dati senza volto, rimane un “grezzo e sbadato parlare” campato per aria, senza storia che faccia luce sulla genesi delle teorie e senza nessi con la realtà,  parafrasando ancora Calvino. Insomma badare allo stile non significa imbellettare i testi con fantasiosi e mirabolanti accorgimenti grafici e multimediali bensì curare il linguaggio corrente nei testi in circolazione che è esoterico per la parte matematica e sciatto, carente e talvolta impreciso per la parte in linguaggio naturale che dovrebbe rendere più trasparente il senso delle formule. 

É deprimente ma sintomatico constatare che le due culture, umanistica e scientifica, sono afflitte in ugual misura da questa stessa piaga. Infatti a sentire il parere di studiosi del calibro di Bodei e Mugnai, l’insegnamento della filosofia è ridotto a “immane racconto dossografico senza capo né coda”, a una  “filastrocca di opinioni ricucite attraverso l’esile filo della progressione cronologica”. 

Ebbene la didattica della fisica si trova in analoghe condizioni. Valga per tutti il giudizio dal filosofo della scienza Imre Lakatos “Non possiamo accettare l’attuale modo barbarico di insegnare la scienza – nemmeno agli studenti universitari”. Ma l’aspetto più paradossale è che le analoghe diagnosi fatte nel passato da fisici, epistemologi, pedagogisti, ma anche da filosofi e letterati, si scontrano con una persistente sordità  quando non con un certo ostracismo da parte degli addetti ai lavori. Basti pensare all’attualità dell’alternativa, tutt’ora inaffrontata, sulla quale si interrogava Montaigne: è meglio formare  “teste piene piene o teste ben fatte?” 

Questa smemoratezza degli esperti e degli educatori genera uno stile di insegnamento e di apprendimento che perfino nelle condizioni più favorevoli è riproduttivo ma non produttivo, nozionistico ma non creativo e stimolante. Un sapere catechistico, astorico e cristallizzato, didascalico e arido, in cui a ogni domanda si dà una risposta univoca, senza possibilità di avere almeno il sentore del travaglio intellettuale di cui ogni risultato è il frutto. Si trascura il valore educativo e pedagogico della storia dei concetti che si snoda attraverso una serie di tentativi, errori e approssimazioni. 

É  impensabile che la prima cinquantina di pagine di fisica che vengono inflitte agli studenti siano dedicate alla misura, agli errori connessi, alla propagazione degli stessi, alla notazione scientifica dei numeri, alle cifre significative etc. Eppure questo è quanto ancora si pratica nelle nostre aule, commettendo l’errore fatale di cominciare dalle minuzie tecniche per poi proseguire con una infinita farcitura di formule di cui non si capisce né la genesi né il senso. Le equazioni e i tecnicismi dovrebbero rappresentare la sintesi finale di un’avventura intellettuale e non il materiale usato per un primo accesso alla fisica. Si direbbe che lo stile scelto dagli autori miri a formare solo delle “teste piene”. 

La pars construens, che viene sviluppata con maggiore ampiezza anche in altre tre parti successive al presente articolo, porta argomenti per promuovere una didattica improntata a uno stile euristico e “umanistico”. 

Una didattica ispirata all’euristica, forma di pensiero più intuitivo, agile e veloce, che scommette su ipotesi ardite o nuove anche se non ancora suffragate o dimostrate, consentirebbe di navigare tra Scilla di una presentazione discorsiva ma vaga e Cariddi di una esposizione molto matematizzata ma inaccessibile. Così le nervature dello sviluppo concettuale risalterebbero con maggiore evidenza e sarebbero più fruibili e stimolanti per un neofita. L’euristica è peraltro parte integrante del mestiere del fisico. L’articolo con cui Einstein introdusse l’idea di fotoni promette fin dal titolo una teoria euristica della radiazione. 

La proposta di una didattica “umanistica” della fisica, per quanto velleitaria possa apparire, la ritroviamo esplicitamente formulata dal fisico Rabi (premio Nobel nel 1944). In sintesi si tratta di fornire contesti e una prospettiva storica al sapere disciplinare che non sia mera aneddotica ma ricostruzione di un’evoluzione intellettuale che si nutre anche di elementi eterogenei attinti dalle più diverse regioni dello spazio culturale di un’epoca. Si tratta infine di coltivare uno spirito critico e, mettendo assieme Leopardi e Calvino, addirittura poetico,  nella convinzione che “l’atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione”.  

L’attuale didattica immerge lo studente in un labirinto mentre è sempre più necessario fornire una mappa, una visione più ampia anche se non troppo dettagliata, in assenza della quale chiunque, come l’uomo senza qualità di Musil, si ritrova incapace di scegliere e di orizzontarsi.

Mario Compiani

Sintesi di Compiani M., “Teste piene o teste ben fatte? Per una didattica umanistica della fisica. Parte I”, Nuova Lettera Matematica, 1 Nuova Serie, Scienza Express Edizioni, 100-113 (2023).

Scarica l’articolo completo apparso sulla rivista Nuova Lettera Matematica.

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