La scienza espressa

Non tutto è relativo

È una frase che si sente ripetere spesso: “Tutto è relativo”.

Viene attribuita a Einstein, ma in realtà non l’ha mai detta.

E non solo: è una semplificazione scorretta che rischia di distorcere il significato profondo delle sue teorie. Perché la relatività, sia quella ristretta che quella generale, non afferma affatto che tutto dipenda dal punto di vista dell’osservatore, ma al contrario si fonda su ciò che rimane invariato, anche quando le condizioni cambiano.

Nel 1905 Einstein pubblica la teoria della relatività ristretta, fondata su due postulati:

  1. le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali (cioè che non subiscono accelerazioni);
  2. la velocità della luce nel vuoto è la stessa per tutti gli osservatori, indipendentemente dal moto della sorgente o dell’osservatore.

Il primo postulato è una generalizzazione del principio di relatività galileiano, ma Einstein vi aggiunge il secondo, che costringe a rivedere radicalmente i concetti di spazio e tempo.

Infatti, se la luce viaggia sempre alla stessa velocità, indipendentemente dal moto dell’osservatore o della sorgente, allora qualcosa deve pur cambiare per far tornare i conti. E ciò che cambia sono proprio lo spazio e il tempo. Il tempo può scorrere più lentamente, le lunghezze possono apparire contratte. È un ribaltamento rispetto all’intuizione comune, ma non un caos dove tutto è relativo e nulla è stabile.

Anzi, è proprio qui che la relatività mostra il suo volto più rigoroso: non tutto cambia. Alcune grandezze restano identiche per tutti gli osservatori, qualunque sia il loro stato di moto. Tra queste c’è, per esempio, l’intervallo spaziotemporale tra due eventi, una combinazione di distanza e durata che rimane costante anche se spazio e tempo, presi separatamente, sembrano variare.

C’è poi il cosiddetto quadrimpulso, che fonde in un’unica entità l’energia e la quantità di moto, e che conserva il suo valore nei diversi sistemi di riferimento. E ancora il potenziale elettromagnetico, riformulato in modo da rispettare la struttura della relatività, anch’esso invariato nelle trasformazioni tra osservatori.

Tutte queste grandezze hanno una cosa in comune: sono descritte da strumenti matematici chiamati quadrivettori. Si tratta di oggetti con quattro componenti, tre spaziali e una temporale, che si trasformano in modo preciso da un sistema all’altro.

Nel 1915 Einstein compie un ulteriore passo avanti con la teoria della relatività generale, che estende il principio di relatività anche ai sistemi non inerziali, cioè soggetti ad accelerazioni. Per farlo, introduce un’idea rivoluzionaria: la gravità non è più una forza, ma una manifestazione della curvatura dello spaziotempo.

Il cuore della relatività generale è il principio di equivalenza: un osservatore in caduta libera non può distinguere localmente se sta cadendo in un campo gravitazionale o se è in assenza di gravità. Questo principio porta alla formulazione delle equazioni di campo di Einstein, che collegano la geometria dello spaziotempo alla distribuzione di massa ed energia.

Uno degli aspetti più profondi della relatività generale è la sua covarianza generale: le leggi fisiche devono avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento, anche accelerati, a condizione di tener conto della curvatura dello spaziotempo. Non è più necessario distinguere tra osservatori “privilegiati” e non: tutti i sistemi di riferimento sono equivalenti, purché si descriva correttamente la geometria del mondo.

Ma attenzione: covarianza generale non significa che tutto è relativo. Significa che, anche in presenza di campi gravitazionali, esistono leggi fisiche invarianti, descritte da oggetti geometrici che non cambiano da un osservatore all’altro. Il formalismo matematico della relatività generale, basato sulla geometria differenziale e sul calcolo tensoriale, è costruito proprio per identificare questi invarianti: curvature, traiettorie geodetiche, intervalli spaziotemporali.

Anche nelle regioni più estreme dell’universo, dove lo spaziotempo si incurva sotto l’effetto della gravità più intensa, come accade nei pressi di un buco nero, la relatività generale ci insegna che esistono grandezze fisiche che restano invarianti, indipendentemente dall’osservatore.

Uno degli esempi più significativi è la massa del buco nero. Sebbene nulla possa sfuggire all’orizzonte degli eventi, la massa del buco nero può essere determinata osservando da lontano gli effetti gravitazionali che esso esercita sugli oggetti circostanti, come stelle, gas o la curvatura della luce stessa. Questa massa è una proprietà intrinseca dell’oggetto e ha lo stesso valore per tutti gli osservatori esterni, qualunque sia il loro stato di moto.

Un’altra quantità fondamentale è l’area dell’orizzonte degli eventi, la superficie che delimita il confine oltre il quale nulla può più tornare indietro. In relatività generale, questa area non è un semplice dettaglio geometrico, ma un invariante geometrico, cioè una grandezza che resta identica in qualunque sistema di coordinate venga utilizzato per descrivere il buco nero. È un risultato sorprendente, perché ci mostra che anche in un universo così dinamico e deformabile, come quello descritto dalla relatività generale, ci sono strutture, invarianti, che fungono da punti fermi.

Questa area è legata anche a concetti profondi come l’entropia del buco nero, attraverso la celebre formula di Bekenstein-Hawking, che stabilisce una connessione tra gravità, termodinamica e meccanica quantistica.

Sia nella relatività ristretta sia in quella generale, il punto centrale non è che “tutto cambia”, ma che esistono regole precise per il cambiamento, e grandezze che non cambiano affatto. Non il caos soggettivo, ma la ricerca di ciò che è oggettivo, pur dentro la molteplicità dei punti di vista.

Valerio Pattaro

Dell’autore:

Carrello
Torna in alto