La scienza espressa

Il ghiacciaio marino artico

Il ghiaccio marino che copre l’Oceano Polare nell’Artico è una componente critica del sistema climatico globale. Il suo contributo maggiore è probabilmente legato alla riflessione di neve e ghiaccio dei raggi solari dalla Terra, nuovamente verso lo spazio (una proprietà nota come albedo). Questo ha una importante influenza sui modelli meteorologici globali, e ovviamente nel lungo periodo anche sul clima. È anche uno dei sistemi in più rapida evoluzione sul pianeta a causa dei cambiamenti climatici legati alle attività umane. In particolare, la superficie marina coperta di ghiaccio, in qualunque stagione venga misurata, si sta riducendo. Ma non solo, stanno cambiando anche le proprietà fisiche del ghiaccio, il suo spessore, ed altre caratteristiche che hanno un impatto per esempio sull’ecosistema polare.

Il motivo per cui le regioni polari dell’emisfero boreale sono così suscettibili al riscaldamento globale è spesso discusso nei media. La regione artica si è riscaldata da tre a quattro volte più velocemente rispetto alla media globale. Mentre il mondo nel suo complesso si è riscaldato di circa 1,2°C dall’inizio della rivoluzione industriale, l’Artico si è riscaldato di circa 3°C. Il ritmo più rapido del riscaldamento nell’Artico rispetto alla media globale è noto come Amplificazione Artica, e si autoalimenta. Negli ultimi quarant’anni la superficie massima annuale della banchisa si è ridotta di almeno la metà [1], lasciando spazio all’oceano, soprattutto nella lunga estate artica, quando il sole è sopra l’orizzonte per ventiquattro ore al giorno. Il riscaldamento più rapido è spesso attribuito allo scioglimento della banchisa che, riducendosi di superficie, viene sostituita dalla crescente distesa di acqua scura dell’oceano che assorbe la luce solare anziché rifletterla.

Osservando la tabella che mostra l’estensione mensile rilevata dai satelliti a partire dal 1979, salta all’occhio che i valori dei primi decenni di misurazione erano decisamente maggiori rispetto alle ultime decadi. L’artico si è riscaldato in ogni mese. Interessante, e molto meno discusso sia nei media che in eventi divulgativi, è invece il grafico che mostra l’estensione al termine della estate polare, nel mese di settembre. In questo periodo la banchisa raggiunge il suo valore minimo annuale: nei primi decenni di rilevamento la coperta di ghiaccio si è ridotta molto rapidamente, ma a partire dal 2007 una linea che interpolasse i valori mensili sarebbe quasi orizzontale. Che sia una pausa dalla riduzione drammatica del secolo appena trascorso?

Per il ritiro del ghiaccio marino dovrebbe trattarsi di pausa e non di un autentico “stop”. Questo lo si evince per esempio da uno studio recente di Anna Poltronieri, dell’Università di Tromso (Norvegia). Poltronieri si occupa di modellistica climatica e i suoi risultati mostrano che con un aumento di temperatura globale di 1,5-2°C la banchisa, nel mese di settembre, scomparirà completamente [2].

A questo punto possiamo passare a un’altra riflessione: per noi che viviamo alle basse latitudini, il ghiaccio marino è una lunga distesa bianca. Piatta. Monotona. Interrotta dalla presenza occasionale di un orso polare.  È insomma un luogo remoto, con cui è difficile relazionarsi. Per la scienza il ghiaccio marino ha invece diverse forme e consistenze, e vive diverse fasi nel suo sviluppo. L’occhio è simile a quello delle popolazioni Inuit, che il ghiaccio marino lo vivono e lo frequentano. Loro, invece di una nomenclatura chiaramente codificata, utilizzano descrizioni del ghiaccio e della sua storia. La necessità è però simile: fornire una informazione utile su ciò che abbiamo di fronte e che può essere una risorsa o un ostacolo.

Innanzitutto bisogna considerare che l’acqua di mare, a causa della sua salinità, congela in modo diverso rispetto all’acqua dolce. La densità dell’acqua marina aumenta costantemente man mano che si raffredda, fino a raggiungere il punto di congelamento a circa -2°C. All’inizio dell’inverno, l’aria fredda raffredda le acque superficiali ed inizia a formarsi un composto cristallino, noto come ghiaccio frazil (dal francese, scoria, cenere) e forma una sorta di zuppa di cristalli di ghiaccio. È una fase importante, questa, perché il moto ondoso e il punto di congelamento più basso ritardano il congelamento. Serve quindi più freddo e per un periodo più lungo, affinché si formi una autentica lastra di ghiaccio. Quando la zuppa si addensa, si forma una sottile pellicola, nota come ghiaccio grasso. Questa pellicola è abbastanza resistente da sostenere il peso di un uccello marino e può incresparsi con le onde che passano sotto di essa. A vederla sembra proprio una pellicola oleosa e abbastanza spessa. C’è poi il nilas, termine preso a prestito invece dalle popolazioni scandinave Sami. Questo indica una sottile crosta di ghiaccio elastica, che si piega facilmente sulle onde e sotto pressione, formando una struttura di “dita” intrecciate. Il nilas ha una superficie opaca e uno spessore che può raggiungere i dieci centimetri. Quando la temperatura superficiale continua a scendere, il ghiaccio si trasforma infine in uno strato solido e viene chiamato, in inglese, pack ice. La nomenclatura del ghiaccio marino comprenderebbe ancora altri nomi e tipologie, e una lunga lista si trova per esempio nel sito del Woods Holes Oceanographic Institute statunitense (https://www.whoi.edu/know-your-ocean/ocean-topics/how-the-ocean-works/frozen-ocean/sea-ice/sea-ice-glossary/).

Da un punto di vista scientifico, uno degli aspetti importanti è l’età del ghiaccio. Nilas, frazil, ghiaccio grasso, sono fasi giovanili del ghiaccio marino. Gli scienziati chiamerebbero però ghiaccio giovane la crosta di ghiaccio di transizione tra il nilas e il ghiaccio del primo anno, con uno spessore di 10-30 cm. C’è poi il ghiaccio del primo anno ed è quello che annualmente si forma in inverno per poi liquefarsi (o, ormai raramente, sopravvivere) durante l’estate. È un ghiaccio marino di non più di un inverno di crescita, e può raggiungere anche un metro di spessore. Su questo ci sentiremmo confidenti a camminare. Esiste, ed è sotto la lente d’ingrandimento del mondo accademico anche il cosiddetto ghiaccio vecchio. Si tratta di ghiaccio marino che è sopravvissuto ad almeno un’estate di fusione. Le caratteristiche topografiche sono generalmente più lisce rispetto al ghiaccio del primo anno. Può essere suddiviso in ghiaccio del secondo anno e, quello che veramente fa la differenza per molti aspetti, il ghiaccio pluriennale.

Dal 1985, il ghiaccio marino pluriennale più spesso, di almeno cinque anni, è diminuito del 95%. Se all’inizio delle misurazioni satellitari questa coltre costituiva il 16% della copertura totale di ghiaccio marino, oggi rappresenta appena l’1% [3-4]. Il ghiaccio pluriennale ha un’albedo (termine che esprime la riflettività di neve e ghiaccio) più elevata rispetto al ghiaccio nuovo più sottile ed è anche meno vulnerabile allo scioglimento. È meno fragile dei ghiacci marini giovani, questo anche perché invecchiando, il sale contenuto nel ghiaccio viene espulso e la struttura dello strato di acqua cristallina diviene più solida. Il ghiaccio pluriennale svolge un ruolo cruciale nella stabilizzazione della regione artica. Avendo resistito per almeno una stagione di scioglimento estivo, fornisce uno strato di isolamento che protegge le specie chiave dell’Oceano Artico, che si sono evolute per avere sempre un soffitto di ghiaccio spesso sopra di sé e senza il quale non possono sopravvivere. Il ghiaccio pluriennale rallenta anche il riscaldamento dell’Oceano Artico e della regione nel suo complesso, mantenendo una copertura di neve e ghiaccio sulla superficie dell’acqua che riflette la luce solare. Circa un quarto degli orsi polari del mondo vive intorno al ghiaccio marino pluriennale. La maggior parte dei narvali del mondo vi trascorre almeno una parte dell’anno. Diverse alghe considerate i piccoli motori della rete alimentare artica, trasformano la parte inferiore del ghiaccio marino in una sorta di giardino pensile dove pascola una abbondante massa di zooplancton, che a sua volta nutre diverse specie di pesci. Le alghe del ghiaccio pluriennale finiscono per collassare verso il fondale e forniscono in questo modo nutrimento per specie che vivono sul fondo dell’oceano. È però anche più difficile (se non talvolta impossibile) da attraversare, per il suo spessore, anche dalle navi rompighiaccio. La sua scomparsa, chiaramente, facilita l’accesso all’Oceano Polare, e il suo attraversamento.

Si prevede che i ghiacci marini estivi scompariranno entro la metà di questo secolo secondo tutte le traiettorie di emissioni [5]. Mentre il ghiaccio pluriennale è ridotto ormai a poco o nulla. Per l’Oceano Polare siamo dunque entrati in una nuova fase, che l’umanità ancora non aveva avuto modo di conoscere.

Jacopo Pasotti

Giornalista scientifico

 

Per saperne di più

  1. Meier, W.M., and J. Stroeve. 2022. An updated assessment of the changing Arctic sea ice cover. Oceanography 35:10-19.
  2. https://iopscience.iop.org/article/10.1088/1748-9326/ad5194
  3. https://climate.copernicus.eu/climate-indicators/sea-ice
  4. https://iccinet.org/multi-year-arctic-sea-ice-declines-to-near-record-low/
  5. Kim, Y-H., S-K. Min, N.P. Gillett, D. Notz, and E. Malinina. 2023. Observationally-constrained projections of an ice-free Arctic even under a low emission scenario. Nature Communications 14:3139.
  6. https://cryo.met.no/en/sea-ice-index
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