La scienza espressa
di Catalina Curceanu

Buchi neri primordiali: la materia oscura di oggi?

Da decenni, la materia oscura resta uno dei misteri più profondi della fisica contemporanea. Invisibile, sfuggente, ma onnipresente nell’Universo – per quello che ne sappiamo (sì, esistono anche teorie che modificano la gravità, ma per ora rimaniamo concentrati sulla materia oscura) – le sue tracce si osservano negli effetti gravitazionali sulle galassie, nella radiazione cosmica di fondo, nella struttura su larga scala dell’universo. Eppure, nessuno l’ha mai misurata direttamente.

Le ipotesi sulla sua natura si moltiplicano: particelle esotiche come gli assioni, i WIMP (Weakly Interacting Massive Particles), o i più sfuggenti neutrini sterili. Particelle ricercate agli acceleratori o nei laboratori sotterranei; per adesso senza risultato. Ma esiste un’alternativa che affascina per il suo cambio di paradigma: e se la materia oscura non fosse fatta di particelle, ma di minuscoli buchi neri, nati nei primissimi istanti dopo il Big Bang?

Sono i cosiddetti buchi neri primordiali (Primordial Black Holes, o PBH). Un’idea non certo nuova, ma oggi rilanciata da teorie e calcoli sorprendenti, che li rimettono in gioco come candidati di pari dignità per risolvere l’enigma della materia oscura.

La formazione dei buchi neri primordiali

A differenza dei buchi neri astrofisici, formati in seguito al collasso di stelle molto massicce, i PBH si sarebbero originati nei primissimi istanti dopo il Big Bang, quando l’universo era ancora un plasma, una zuppa di particelle densissima e rovente.

Bastava una piccola fluttuazione di densità—una regione leggermente più densa delle altre—per farla collassare su se stessa sotto il proprio peso gravitazionale, formando un buco nero. Secondo i modelli, questi PBH avrebbero potuto avere masse molto diverse, da una frazione di grammo a milioni di tonnellate.

Ma perché non li vediamo? Secondo la celebre teoria di Stephen Hawking, i buchi neri evaporano nel tempo, attraverso una radiazione (la cosiddetta “radiazione di Hawking”). Questo li porta, nel corso di un tempo che dipende dalla loro massa, e che potrebbe essere di molti miliardi di anni, a scomparire del tutto. Solo quelli con una massa iniziale sufficientemente grande—almeno un trilione di chilogrammi—potrebbero essere sopravvissuti fino a oggi.

Fine della storia? Non proprio.

L’effetto memoria: i buchi neri non dimenticano

Nel 2018, il fisico teorico Gia Dvali e collaboratori hanno proposto una nuova interpretazione quantistica dei buchi neri. Invece di considerarli semplici oggetti classici con una correzione quantistica superficiale, Dvali li ha descritti come condensati quantistici di gravitoni, i presunti quanti del campo gravitazionale, ancora non scoperti.

In questa visione, ogni buco nero conserva un’enorme quantità di informazione quantistica, una sorta di “memoria” del suo contenuto originario. E questa memoria non è inerte: agisce come una zavorra, rallentando o persino bloccando il processo di evaporazione.

È il cosiddetto effetto memoria (memory burden effect): quando il buco nero ha perso una parte significativa della sua massa, la memoria diventa dominante e l’evaporazione rallenta drasticamente.

Risultato? Anche i buchi neri primordiali molto più leggeri di quanto pensassimo potrebbero essere ancora presenti nell’universo. Silenziosi, freddi, e… invisibili. In altre parole: materia oscura.

La possibile prova? Nelle onde gravitazionali

Ma come cercare qualcosa che, per definizione, non emette luce? (la materia oscura)

Una risposta potrebbe arrivare dalle onde gravitazionali, quelle minuscole increspature dello spaziotempo che si propagano per l’Universo, previste dalla teoria di Einstein e misurate per la prima volta nel 2015.

Un recente studio, effettuato da Kazunori Kohri, Takahiro Terada e Tsutomu T. Yanagida del Giappone, pubblicato nella rivista Physics Reviews Letters (vedi soto), ha proposto un approccio rivoluzionario: rilevare le onde gravitazionali “indotte” dalla formazione stessa dei PBH.

L’idea è questa: quando, nei primi istanti dell’universo, si formavano zone ad altissima densità (quelle che avrebbero poi partorito i PBH), si generavano anche fluttuazioni gravitazionali secondarie. Queste avrebbero lasciato una firma precisa nel fondo di onde gravitazionali cosmiche.

Kohri e il suo team hanno calcolato lo spettro previsto di queste onde: la loro frequenza dipende direttamente dalla massa del PBH originario. E—sorpresa—molti di questi segnali ricadrebbero proprio nelle frequenze osservabili dai futuri rivelatori di onde gravitazionali, come LISA, DECIGO e il Cosmic Explorer.

In particolare, i PBH “appesantiti” dall’effetto memoria produrrebbero onde a frequenze più basse e persistenti, potenzialmente rilevabili anche dopo miliardi di anni.

Verso una nuova teoria?

Il lavoro del gruppo giapponese va oltre la speculazione teorica: fornisce grafici, spettri e previsioni concrete del rapporto segnale-rumore atteso nelle osservazioni. Inoltre, propone criteri osservativi precisi per verificare, o escludere, l’ipotesi dei PBH come materia oscura.

Coma da aspettarsi, molte incognite restano aperte. La dinamica dei buchi neri con effetto memoria non è ancora pienamente compresa: non sappiamo se evaporano più lentamente, se si stabilizzano del tutto, o se decadono in altre forme di materia o onde gravitazionali.

Ma ciò che è certo è che la questione dei buchi neri primordiali mette in gioco tutti i pilastri della fisica moderna: relatività generale, meccanica quantistica, cosmologia primordiale, e la fisica delle particelle.

Ed è forse proprio questo il loro fascino: come eco silenziosa di un universo bambino, i PBH ci sfidano a unire le teorie più avanzate con l’osservazione più ambiziosa. In fondo, potrebbero essere sempre stati lì, invisibili ma determinanti, a modellare l’universo in cui viviamo e, dunque, la nostra stessa vita.

Catalina Curceanu

Articolo citato: https://journals.aps.org/prd/abstract/10.1103/PhysRevD.111.063543

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