La scienza espressa
di Alessio Ricci

Israele VS Iran – L’enigma della Persia

Alle nostre latitudini viene difficile capire le ragioni dello scoppio del nuovo conflitto tra Israele e Iran, il quale oramai è dagli stessi attori in gioco definito più giustamente una vera e propria guerra, diretta e senza “proxy”. Una guerra che, allo stato attuale, è puramente balistica e aerea, poiché i due paesi non condividono un confine e quindi una linea di contatto.

Occorre, necessariamente, fare più di un paio di passi indietro, non solo per capire i perché di questa guerra, ma in primis comprendere perché sia divampata proprio in questi giorni.

L’abbrivio israeliano va inserito in tutto quello che è successo a partire dal 7 ottobre 2023, giorno dell’Operazione Diluvio al-Aqsa orchestrata da Hamas, in cui circa 1200 tra civili e soldati israeliani sono stati uccisi e 250 rapiti. La reazione rabbiosa israeliana riguardò dapprima Hamas nella striscia di Gaza, poi Hezbollah al confine con il Libano, poi la partecipazione indiretta alla caduta del regime damasceno, infine il lancio di missili balistici contro gli Huthi nello Yemen e contro l’Iran in maniera diretta e inequivocabile. È impossibile non notare quanti siano, anche solo numericamente, i fronti aperti dallo Stato ebraico. Ma è altrettanto giusto rilevare che tutti gli agenti iraniani (Hamas, Hezbollah, l’ex-regime siriano, gli Huthi) siano stati tutti fortemente indeboliti e che quindi l’Iran stesso stia attraversando un periodo di forte fiacchezza e confusione. Parallelamente, da tempo, è in corso lo sgravio del coinvolgimento americano nell’area mediorientale (e non solo), dove l’ordine securitario degli alleati è stato subappaltato a Israele stessa, come dimostrano gli accordi di Abramo, più vivi che mai. Gli Stati Uniti sono troppo impegnati al contenimento della Cina e alla gestione di un difficile (per ora) cessate il fuoco tra Russia e Ucraina, per occuparsi anche del Medio Oriente. Amministrazione americana peraltro formalmente impegnata con la controparte persiana proprio per un negoziato sul nucleare. Da qui nasce un dubbio puramente retorico: la Repubblica Islamica era/è vicino alla bomba atomica o il negoziato americano stava prendendo delle pieghe sfavorevoli a Israele? Impossibile saperlo.

Di sicuro l’attacco israeliano, tanto improvviso quanto rischioso, sarà giudicato vincente se e solo se avrà bloccato o posticipato in maniera decisiva lo sviluppo dell’atomica. Non esistono altre metriche. E questo sarebbe eventualmente raggiungibile con il forte supporto americano, sia a livello di intelligence sia a livello di mezzi. O meglio, ci sarebbe un ulteriore risultato sperato, ancora più difficile se possibile e dopo vedremo il perché: il rovesciamento del regime degli Ayatollah. Non è un caso che Netanyahu si sia rivolto proprio al popolo persiano, invitandolo a ribellarsi e rovesciare il regime di Ali Khamenei, la Guida Suprema.

I due popoli, quello persiano e quello israeliano, non sono due soggetti comuni, hanno cifre e milieu diversi dai nostri. Per non ridurne eccessivamente la complessità, in questo articolo analizziamo più profondamente l’Iran; nel successivo, invece, ci concentreremo sullo stato ebraico.

Per noi occidentali (qualsiasi cosa voglia dire), l’Iran rimane un enigma, impossibile da decifrare e declinare secondo la nostra normale tassonomia o strumentario culturale. Innanzitutto, l’Iran è un impero, accozzaglia di popoli e genti diversi, tenuti insieme con la spada e con il sentimento dall’etnia maggioritaria e dominante: i persiani, i quali intelligentemente preferiscono rinominarsi Iran anziché Persia, proprio per tenere unite le moltissime etnie presenti: azeri, curdi, baluci, turcomanni, arabi, luri, qashqai, gilaki, mazanderani, etc. (Operazione simile al rebranding in Impero Britannico, anziché Inghilterra, operata dagli inglesi qualche tempo fa). Godono di qualche privilegio in più gli azeri, quasi 15 milioni sui 90 totali, di fatto ne vivono più in Iran che in Azerbaijan (circa 10 milioni). La cifra antropologica, il canone culturale, linguistico, pedagogico e religioso, sono dettati unicamente dai persiani. L’Islam è stato imposto con la forza sulla religione Zoroastriana nel Medioevo dalle invasioni degli arabi (che però non sono riusciti a imporre né lingua né cultura), ma i persiani rifiutarono la versione arabo-sunnita che ruota religiosamente e geopoliticamente intorno all’Arabia e alle città di La Mecca e Medina, e gemmarono la loro visione/eresia sciita (di stampo più sincretico-zoroastriano appunto), orbitante intorno alla città religiosa e (soprattutto) persiana di Qom. Infatti, sarebbe stato impossibile dipendere geopoliticamente da qualcosa di così esogeno e diverso, siano essi semiti (arabi ed ebrei) o “occidentali”.

In tutte le loro accezioni politiche della loro storia millenaria, medi, achemenidi, parti, sasanidi, safavidi, cagiari, palhavi e ora ayatollah e pasdaran, i persiani si sono sempre percepiti come il centro del mondo e contro chi, invece, da occidente il mondo vorrebbe governarlo: greci, romani, ottomani, inglesi, russi, americani, in ordine non sparso.

La penultima dinastia, quella degli Scià Palahvi, fu rovesciata nel 1979 proprio perché ritenuta troppo filoccidentale: era inaccettabile l’idea di una nazione iraniana avamposto americano nella regione. Da qui, lo scoppio di quella rivoluzione di gemmazione borghese (proprio come quella francese e americana), portata avanti da giovani e studenti, che ha portato l’Ayatollah Ruhollah Khomeini a essere la Guida Suprema del paese. Ebbene sì, sembra assurdo e inspiegabile (solo per noi), ma una rivoluzione giovane e borghese può portare a un regime religioso e autocratico. In quegli anni, al celebre filosofo francese Michel Foucault fu chiesto di andare a intervistare lo stesso Khomeini che fino al 1979 viveva nei sobborghi di Parigi, protetto dai servizi segreti francesi. Egli declinò, preferendo raccontare la rivoluzione dal di dentro, andando proprio a Teheran in quei mesi e raccontando con articoli e reportage anche per il Corriere della Sera cosa stava succedendo. Ne uscì un quadro incredibile, che suscitò profondo clamore, allora come oggi. I persiani rifiutarono con forza e violenza le categorie e i canoni culturali imposti dall’esterno, soprattutto dall’Occidente, in primis dagli Stati Uniti d’America. Essi respinsero quella che per noi era “modernità” e “modernizzazione”, poiché percepivano questi fattori come profondamente rinnegatori della propria identità. Sia chiaro, qui non si sta cercando di spiegare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ma semplicemente provare a vedere quello che i popoli vedono, a sentire quello che loro sentono. I persiani sono sempre stati relativamente laici, e hanno sempre visto e vissuto la religione come strumento di potenza, non il fine; tuttavia, in quella fase, pur di non cadere in quella che consideravano una trappola occidentale, che avrebbe sradicato il loro stare (o meglio sentirsi) al centro del mondo, si sono rifugiati nell’estremismo e in una teocrazia, che tuttora tollerano per due motivi: il primo, perché riesce in qualche modo a tenere unite le tante etnie presenti; il secondo, perché questo regime riesce a dare all’Iran una postura imperiale nella regione, soprattutto nei confronti di turchi, arabi e israeliani, tutti popoli naturalmente avversari (e talvolta nemici) dei persiani. Insomma, il pan-islamismo vera e propria matrice culturale con cui l’Iran irradia potenza al suo interno e nell’estero vicino.

Al contrario di quanto la dizione mediatica di tv e stampa nostrana ha facilmente e frettolosamente decretato, le rivolte degli scorsi anni (2022), esplose dopo l’uccisione da parte della polizia morale di Mahsa Amini, una giovane curda (elemento non casuale) di ventidue anni, non riguardarono solo la parità di genere. Infatti, le proteste assunsero presto una connotazione in qualche modo vetero-imperiale: giovani e donne protestarono mostrando gioielli zoroastriani, richiamando proprio la condizione quasi paritetica della donna in epoca antica e imperiale. A un certo punto, cominciarono manifestazioni e pellegrinaggi verso le (presunte) tombe dei grandi personaggi persiani del passato, come l’Imperatore Ciro il Grande. Una di queste per festeggiare l’anniversario dell’entrata vittoriosa in Babilonia (oggi in Iraq), al grido di “l’Iran è la nostra patria, Ciro è nostro padre” (in parsi “Iran Vatan-e Mast, Kourosh Pedar-e Mast”). Giusto per comprendere meglio, i (tantissimi) giovani iraniani di oggi, per protestare contro l’attuale regime teocratico, ritenuto troppo religioso e poco imperiale, hanno marciato verso la tomba di un imperatore persiano morto 2550 anni fa (l’imperatore romano Augusto visse 500 anni dopo, per intenderci). Non proprio una protesta per diventare come noi o per avere un regime liberal-democratico. L’Iran ha un’età mediana di soli 30 anni, una demografia incredibilmente giovante e quindi violenta, anelante le glorie della Storia, o meglio della loro storia, che ogni popolo studia a propria immagine e somiglianza, dove anche le più brucianti sconfitte possono essere tramutate in vittorie: così nei libri di testo iraniani Alessandro Magno diventa Iskander ed è un re persiano (non sorprendiamoci, è una prassi comune, gli inglesi hanno fatto la stessa cosa con il re William The Conqueror, al secolo Guillaume, francese della Normandia e capostipite di tutti i reali inglesi).

Hanno cercato di cavalcare le proteste anche le diverse etnie, per richiedere più diritti e sottrarsi dal giogo persiano: tra questi proprio i curdi, che tra le varie cose richiedevano l’insegnamento della loro lingua nelle scuole pubbliche. Impossibile da accettare per qualsiasi impero, il quale assimila e non integra.

Tuttavia, la stragrande maggioranza del paese è rimasta silente, a osservare. Tutti i regimi, democratici e autoritari, devono godere della maggioranza del proprio popolo per governare, nessuno escluso. Certo, sicuramente gli iraniani auspicherebbero una maggiore laicità dello Stato, ma non rinuncerebbero per nulla al mondo alla loro postura imperiale, né la baratterebbero per i diritti e il benessere europei. Eppure, una parte del paese, quella più povera e rurale, sta cominciando a sentire una “stanchezza imperiale” e chiede timidamente di cominciare a svincolarsi dai troppi teatri in cui si trova coinvolto (qualcosa di simile ma con diversi ordini di grandezza in più sta accadendo dalle parti di Washington).

Innegabilmente, l’Iran è rimasto spiazzato, sorpreso e ferito dallo scoppio di questa guerra con Israele. Eppure, le tensioni e gli scontri non sono mancati, infatti Teheran ha visto nel corso dei mesi attaccare i propri alleati, uno alla volta, fino ad arrivare allo scontro diretto. Difficile predire il corso e la conclusione di questa guerra. Israele sta tatticamente puntando anche a una destabilizzazione sociale interna all’Iran: infatti invia costantemente messaggi in tutte le forme e piattaforme, in parsi e nelle altre lingue, per sollecitare le varie etnie a rivoltarsi e per cooptare i giovani persiani a rovesciare contro questo regime teocratico che nulla ha a che vedere contro la gloriosa e lunga storia persiana: «È giunto il momento per il popolo iraniano di unirsi attorno alla propria bandiera e alla propria eredità storica, lottando per la libertà», è il messaggio di Benjamin Netanyahu diffuso al mondo e in Iran, sollecitando anche gli abitanti di interi quartieri di Teheran a mettersi in salvo perché epicentro di attacchi imminenti.

I persiani stanno al mondo da quasi tremila anni, sono uno dei popoli più sofisticati e ricchi di storia di sempre. Impossibile dire loro come stare al mondo. Occorre dismettere al più presto la vulgata che “prevede” che a ogni protesta e rivoluzione in ogni parte del mondo, le popolazioni vogliano abbracciare diritti, aperitivo e Netflix. Niente di più falso e illusorio.

Al momento della stesura di questo articolo, risulta difficile prevedere se l’attuale regime teocratico cadrà. Ma una cosa è certa: o la Persia sarà sé stessa e antioccidentale, oppure non sarà.

Alessio Ricci

Per saperne di più:

  • Foucault, M. (2023). Dossier Iran. Neri Pozza Editore.
  • Stauth, G. (1991). Revolution in Spiritless Times. An Essay on Michel Foucault’s enquiries into the Iranian Revolution. International Sociology6(3), 259-280.
  • Fabbri, D. (2024). Sotto la pelle del mondo. Feltrinelli
  • Fawcett, L., & Jagtiani, S. L. (2024). Regional powers, global aspirations: lessons from India and Iran. International Politics61(1), 215-238.
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