La scienza espressa

Esiste una relativamente vasta letteratura di barzellette “scientifiche” in cui un ingegnere, un fisico e un matematico si trovano di fronte a una situazione problematica. Ovviamente, chi sia la figura della quale ridere dipende da qual è la comunità da cui è scaturita la barzelletta. Quando si ride del matematico, egli viene rappresentato mentre è bloccato di fronte alla situazione problematica e, quando viene interpellato, risponde: “Supponiamo per assurdo che…”

Dietro allo scherzo c’è un fondo di verità: la passione di molti matematici per i ragionamenti indiretti, che essi ritengono particolarmente eleganti. Tra i ragionamenti indiretti, una particolare enfasi è posta di solito sulla dimostrazione per assurdo. La dimostrazione per assurdo procede secondo questo schema: di fronte al problema di dimostrare che da \(A\) segue \(B\), si assume che valgano sia \(A\) che \(non\; B\), e si cerca di ricavare una qualche contraddizione da queste assunzioni. Se si riesce a trovarne una, la dimostrazione è conclusa. Nel caso in cui non ci sia una vera e propria ipotesi \(A\), il metodo di dimostrazione per assurdo si riduce ad assumere \(non\; B\) e ricavare da questo una qualche contraddizione.

La dimostrazione per assurdo fa parte della cassetta degli attrezzi del matematico da molto tempo. Un esempio degno di nota, che risale all’antica Grecia, è la dimostrazione dell’irrazionalità di \(\sqrt{2}\):

se \(\sqrt{2}\) fosse razionale, allora sarebbe esprimibile tramite una frazione ridotta ai minimi termini \(a/b\). Elevando al quadrato otterremo che \(a^2/b^2=2\), da cui \(a^2=2b^2\). Da questo segue che \(a\) deve essere pari, ovvero uguale a \(2c\) per qualche intero \(c\). Sostituendo nell’ultima equazione otteniamo che \(4c^2=2b^2\), da cui \(2c^2=b^2\), da cui si ottiene che anche \(b\) è pari. Ma allora \(a\) e \(b\) sono entrambi pari ottenendo una contraddizione con il fatto che \(a/b\) fosse ridotta ai minimi termini. Detto in modo più conciso, alla Aristotele, si dimostra “che la diagonale è incommensurabile, facendo vedere che pari e dispari diventano uguali, se si è assunto che essa sia commensurabile”.

Talvolta si utilizza una dimostrazione indiretta quando si vuole dimostrare qualcosa della forma “Esiste \(x\) in \(A\) che soddisfa \(P(x)\)”. Una possibile strategia dimostrativa consiste infatti nell’assumere che “Tutti gli \(x\) in \(A\) non soddisfano \(P(x)\)” e cercare di arrivare a una contraddizione. Un esempio è la dimostrazione del seguente teorema.

Teorema. Nello sviluppo decimale di \(\pi\) ci sono due cifre che compaiono infinite volte.

Dimostrazione. Se tutte le cifre comparissero un numero finito di volte,  \(\pi\) sarebbe un numero decimale finito e quindi un numero razionale. Ma sappiamo che  \(\pi\) è irrazionale. Dunque almeno una cifra di  \(\pi\) si ripete infinite volte. E non può essercene solo una, altrimenti  \(\pi\) sarebbe periodico e quindi razionale. \(\square\)

Interessante sapere che allo stato attuale non è stata ancora dimostrata nessuna delle dieci proposizioni: “Nello sviluppo decimale di \(\pi\) la cifra \(n\) compare infinite volte”, per \(n=0,…,9\).

La dimostrazione del teorema è elegante, ma non particolarmente informativa, se confrontata con la possibilità di avere una dimostrazione di uno dei dieci risultati che nessuno ha ancora dimostrato. La scelta di una dimostrazione indiretta, in questo caso, pare essere stata una scelta obbligata e non guidata da criteri meramente estetici: se nessuno ha ancora dimostrato uno degli altri dieci possibili teoremi, è possibile che questo sia molto difficile da fare. In altri casi, invece, è l’eleganza dei metodi indiretti a guidare i matematici verso l’utilizzo di tali strategie dimostrative. Non mancano infatti casi in cui una dimostrazione diretta semplice e più informativa è disponibile, ma viene ignorata a favore di un ragionamento elegante indiretto.

Storicamente, l’uso di ragionamenti indiretti apparentemente non necessari ha portato talvolta a scoperte curiose. D’altra parte, prendendo una strada tortuosa ci può capitare di ammirare un paesaggio inaspettato. Un esempio interessante riguarda un matematico italiano: Cesare Burali-Forti. Nel 1897 egli pubblicò nei Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo un articolo dal titolo Una questione sui numeri transfiniti. Attraverso le sue stesse parole, “Scopo principale di questa Nota è di dimostrare che esistono dei numeri transfiniti (…) \(a\), \(b\) tali che, \(a\) non è uguale, non è minore e non è maggiore di \(b\)”. Burali-Forti era dunque interessato alle novità relative alla teoria degli insiemi che stava nascendo proprio in quegli anni, e in particolare al concetto di insieme ben ordinato introdotto da Cantor. Peccato che egli fraintese la definizione data dal matematico tedesco, o meglio ne perse un pezzo per strada. Per Burali-Forti un insieme ben ordinato, scritto in termini più moderni, era un insieme totalmente ordinato avente un minimo, tale che ogni elemento con un maggiorante, ammettesse un maggiorante minimo. Definito tra tali ordini un concetto di minore e uno di equivalenza, si pose il problema se dati due ordini \(P\) e \(Q\) essi sono sempre equivalenti o uno minore dell’altro. La sua risposta fu negativa. Ma quello che ci interessa è la strategia dimostrativa che seguì. Innanzitutto, per dimostrare che la tricotomia non vale tra i buoni ordinamenti, è sufficiente far vedere che non vale in una sotto-collezione di questi. Per questo definì il concetto di ordine perfetto. Un ordine perfetto è un insieme ben ordinato (secondo la definizione incompleta di Burali-Forti) che soddisfa una condizione aggiuntiva: per ogni elemento \(x\) che ha un immediato predecessore esiste un elemento \(y\) minore di esso senza un immediato predecessore tale che gli \(z\) compresi tra \(y\) e \(x\) sono in numero finito.

A questo punto Burali-Forti assunse che per gli ordini perfetti valesse la tricotomia e da questa assunzione derivò il fatto che la collezione di tutti i tipi di ordini perfetti (ovvero le classi di equivalenza di ordini perfetti) fosse essa stessa un ordine perfetto \(P\). A questo punto, a partire da \(P\), costruì un nuovo ordine perfetto \(P+1\) che era allo stesso tempo maggiore e minore o uguale di \(P\), ottenendo una contraddizione.

La cosa curiosa è che a portata di Burali-Forti c’era un modo più semplice per arrivare alla risposta negativa relativa alla tricotomia dei suoi buoni ordinamenti. Nel suo stesso scritto egli aveva infatti riportato un esempio di insieme ben ordinato (secondo lui), ma non perfetto: l’insieme era sostanzialmente costituito da due copie dell’insieme dei numeri naturali \(N\) messe una dopo l’altra, una nell’ordine usuale e l’altra nell’ordine inverso:

\[ 0 \qquad 1 \qquad 2 \qquad 3 \qquad … \qquad  \qquad \color{red}{…} \qquad \color{red}{3} \qquad \color{red}{2} \qquad \color{red}{1} \qquad \color{red}{0} \]

In questo ordine ogni numero nero è minore di tutti i numeri rossi. Un numero nero è minore di un altro numero nero se e solo se lo è come numero naturale e un numero rosso è minore di un altro numero rosso se e solo se è maggiore come numero naturale.

Ora, se consideriamo un altro insieme ben ordinato simile, sempre costituito da due coppie di \(N\), ma in cui l’ordine viene preservato

\[ 0 \qquad 1 \qquad 2 \qquad 3 \qquad … \qquad  \color{red}{0} \qquad \color{red}{1} \qquad \color{red}{2} \qquad \color{red}{3} \qquad \color{red}{…} \]

allora è facile verificare che nessuno dei due ordini è minore dell’altro, né essi sono equivalenti.

Tuttavia, Burali-Forti scelse una strada tortuosa che passava attraverso una definizione piuttosto bizzarra e un argomento indiretto sofisticato.

Più tardi, questo argomento fu adattato da Russell per costruire un paradosso della teoria ingenua degli insiemi che egli battezzò Paradosso di Burali-Forti in onore del matematico italiano.

En passant, la tricotomia in realtà vale per gli insiemi ben ordinati secondo la definizione originale di Cantor, mentre all’origine del paradosso risiede la possibilità di raccogliere tutti i tipi di ordine in un insieme, ma questa è un’altra storia.

Abbiamo visto quindi un caso curioso in cui una dimostrazione indiretta non necessaria ha portato a un’idea matematica estremamente interessante, addirittura a un paradosso della teoria ingenua degli insiemi.

Come abbiamo notato, la possibilità di utilizzare dimostrazioni indirette permette di dimostrare l’esistenza di oggetti matematici di certi tipi, senza esibirne necessariamente uno di preciso. Tale possibilità, percepita come elegante da una parte dei matematici, è invece osteggiata da un’altra parte di matematici, coloro che aderiscono alla posizione filosofica chiamata costruttivismo. Per la matematica costruttiva, l’esistenza è interpretata in modo forte: qualcosa esiste solo se siamo in grado di costruirla. Usando le parole di Errett Bishop tratte dal suo A constructive manifesto: “Constructive existence is much more restrictive than the ideal existence of classical mathematics. The only way to show that an object exists is to give a finite routine for finding it, (…)”.  Per questo il costruttivismo rigetta i metodi indiretti nella pratica matematica: la dimostrazione per assurdo, la dimostrazione contronominale e il principio del terzo escluso, che li giustifica.

Tuttavia, nonostante la restrizione dei mezzi logici che essa si concede di usare, la matematica costruttiva si è rivelata estremamente ricca. La gran parte dei risultati che si dimostrano in matematica classica possono essere dimostrati anche in matematica costruttiva. Il vantaggio di questo approccio è un concetto di dimostrazione più ricco di informazioni e più sensibile agli aspetti computazionali.

Samuele Maschio

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