La scienza espressa
di Marco Fulvio Barozzi

Dopo quasi cinque mesi di silenzio, nella seduta dell’Accademia del 6 luglio 1868, Michel Chasles tornò improvvisamente alla carica, e lo faceva ancora sulla cecità di Galileo, stimolato da due pubblicazioni dei suoi avversari. Ribadita la sua certezza che Galileo non fosse completamente cieco nel 1638, il geometra si scagliava contro padre Secchi, autore di uno scritto uscito sul Giornale Arcadico di Roma, e soprattutto contro Henry Martin, che aveva pubblicato un pamphlet intitolato Newton difeso contro un falsario inglese. Lo scritto di quest’ultimo non era altro, secondo Chasles, che una riproduzione dei giudizi e degli errori espressi nella seduta del 9 dicembre. Esso era costituito da tre parti: la prima si riferiva ai documenti presentati da Chasles relativi a Pascal e Newton, la seconda alle lettere di Galileo già citate, e nella terza l’autore giudicava la totalità dei documenti presentati durante la polemica, concludendo che erano tutti falsi e tutti opera di un falsario inglese. Nella prima parte non si può dare torto a Chasles, perché Martin si attaccava a minuzie lessicali e sintattiche per dire che l’autore delle lettere non poteva essere francese. Riguardo alla presunta cecità di Galileo, Chasles faceva notare che lo scritto di Martin, datato 21 dicembre, non teneva conto delle osservazioni di Volpicelli presentate successivamente, che a suo parere mettevano la parola fine alla questione: Galileo non era completamente cieco, anche se aveva perso un occhio e l’altro era malato. Ovviamente anche la terza parte della tesi di Martin era, a parere di Chasles, contraddittoria e superata dai documenti emersi in seguito.

Non era tuttavia tutto. Con un coup de théâtre dei suoi, Chasles presentava all’Accademia una nuova, cospicua serie di documenti inediti che evidentemente Vrain-Lucas gli aveva procurato nel frattempo.

Le prime tre lettere erano del poeta e diplomatico Vincent Voiture, che nel 1638 era stato inviato in missione a Firenze per comunicare a Ferdinando II de’Medici la nascita del Delfino (il futuro Luigi XIV, nato il 5 settembre). Le tre missive, datate tra il 20 e il 21 settembre 1638, erano indirizzate rispettivamente al re Luigi XIII, al Cardinale de Richelieu e alla scrittrice e filosofa mademoiselle de Gournay. In esse si descrive un Galileo in buona salute, intento a scrivere relazioni sulle sue osservazioni astronomiche. Chasles presentava poi una lettera del poeta drammatico Jean Rotrou (1609-1650), che augurava allo scienziato italiano un pronto ristabilimento dopo “l’accidente” che gli era capitato agli occhi.

Seguivano altre lettere a Galileo o su di lui, presentate in ordine cronologico, in cui, tra il novembre 1638 e il marzo 1642, diversi corrispondenti da ogni parte d’Europa si preoccupano per la sua vista, lamentavano la sua impossibilità di studiare il firmamento e gli augurano una pronta guarigione. Tra di essi il cancelliere svedese Axel Oxenstierna, il principe di Condé, il Re d’inghilterra Carlo I, la regina Cristina di Svezia, il cardinale Bentivoglio (per conto del re di Francia), Honoré de Balzac, il pittore Nicolas Poussin. Persino papa Urbano VIII si preoccupava indirettamente della sua vista. In nessuna delle lettere si diceva apertamente che Galileo fosse diventato completamente cieco. Nell’ultima, del cardinale Bentivoglio a Balzac, il prelato diceva addirittura il 2 marzo 1642 di aver trovato Galileo “non così malato come si è voluto far credere”. Peccato, come fece notare Henry Martin in una lettera inviata all’Accademia subito dopo la seduta, che Galileo fosse morto l’8 gennaio precedente, cosa che era sicuramente nota al vero Bentivoglio, ma forse non al suo falsario.

Chasles rispondeva nella seduta del 20 luglio, assai piccato per la frase di Martin su “l’arsenale inesauribile di pezzi apocrifi”. In risposta presentava questa volta l’intera lettera di Bentivoglio a Balzac e non suo estratto, dalla quale si poteva capire che egli sapeva della sua morte, ma, durante la sua ultima visita, l’aveva visto in buono stato. Seguivano altre lettere del cardinale al Re di Francia, dello stesso Luigi XIII al duca di Sully, a Richelieu, ad altri personaggi, in un vortice di nuove presunte prove. C’era persino una lettera di solidarietà del re Luigi a Galileo del 1633 dopo la condanna del Sant’Uffizio e una seconda di protesta al papa in persona.

A questo punto viene da chiedersi se Chasles non fosse oramai più vittima del proprio delirio che di Vrain-Lucas.

L’ultima serie di documenti erano lettere di Luigi XIV, che avrebbe fatto cercare a Roma l’archivio del cardinale Bentivoglio da padre Ismaël Boulliau, astronomo dilettante. Il nuovo re scriveva a Cassini per comunicargli di aver trovato prove dello sforzo del padre Luigi XIII affinché Galileo fosse trattato con giustizia e clemenza, a Giacomo II d’Inghilterra per dirgli che aveva trovato lettere di Giacomo I dello stesso tenore, ancora a Boulliau per inviarlo a chiedere alla famiglia del defunto Poussin se avessero ancora delle lettere di Galileo. Altre missive con inviti a cercare lettere di Galileo erano inviate a Madame de Maintenon, al Priore dei Frati Minimi di Parigi e al medico e filosofo Marin Cureau de la Chambre, che, il 22 marzo 1668, rispondeva di aver trovato 148 lettere inviategli da Galileo!

Ad alimentare il fuoco della seduta, veniva data lettura della lettera di Martin che aveva fatto infuriare Chasles a proposito della cecità di Galileo. Premesso che egli rimaneva della sua opinione sulla “favola riguardante le grandi scoperte astronomiche di Pascal”, voleva precisare alcuni punti che non aveva ritenuto necessario fossero dettagliati perché erano già stati trattati da Padre Secchi. Tuttavia, dopo l’intervento di Chasles del 6 luglio, voleva presentare nuovi elementi.

In una lettera al teologo ed erudito Fulgenzio Micanzio del 30 gennaio 1637, Galileo parla già della sua cecità, delle sue tenebre, della perdita totale della sua vista, e tuttavia, in una lettera del 4 aprile successivo, dice al discepolo Vincenzo Renieri di non riuscire a scrivere bene perché non si è ancora liberato di un’infiammazione all’occhio destro che gli fa temere di perderlo. Martin ringrazia Chasles di aver fatto notare questa contraddizione apparente, spiegando che a quel tempo il calendario toscano iniziava ab Incarnatione Domini, cioè il 25 marzo. Il biografo di Galileo, il poligrafo Eugenio Alberi (1807-1878), quando curò Le opere di Galileo Galilei in 15 volumi, tra il 1842 e il 1856, aveva così aumentato di una unità le date annuali delle lettere, dimenticandosene però qualcuna. Così la data del 30 gennaio 1637 ab Incarnatione va correttamente interpretata come 30 gennaio 1638 del calendario corrente. Del resto, la lettera di Galileo è chiaramente una risposta a una lettera di Micanzio del 5 dicembre 1637. Martin ribadiva infine che la lettera in cui il primo gennaio 1638 Galileo scriveva a Boileau “che non vede più con gli occhi aperti che con gli occhi chiusi” poteva essere interpretata in una sola maniera, e cioè che era ormai completamente cieco.

Non era ancora finita, perché una nota di Gilberto Govi giunta nel frattempo all’Accademia spiegava la questione del calendario ab Incarnatione confermando quanto scritto da Martin e concludendo che l’argomentazione di Chasles era priva di appoggio, così come lo erano le esagerazioni di linguaggio di cui egli aveva accusato il povero Galileo.

La hybris di Chasles era ormai irrefrenabile. Nella seduta del 3 agosto presentava una lunghissima memoria che esordiva dicendo che l’opera curata da Eugenio Alberi era completamente inutile per la discussione, perché si basava su copie di lettere presenti nella Biblioteca Palatina di Firenze, mentre lui era in grado di esibire lettere originali, anche molto più antiche, come quelle di Francis Bacon, Shakespeare, Malherbe, Gustavo Adolfo, che tuttavia non servivano alla discussione in corso.

Seguiva un lungo capitolo per rispondere ancora a Martin sulla cecità di Galileo, in cui Chasles diceva che le osservazioni delle storico erano smentite dall’evidenza delle lettere presentate da lui stesso all’Accademia. Insomma, fingeva di ignorare che erano proprio questi documenti l’oggetto di uno scetticismo crescente. Il terzo capitolo della memoria era in risposta a Govi, dello stesso tenore..

Chasles presentava poi a supporto delle sue tesi altre lettere: di papa Urbano VIII a mademoiselle de Gournay (6 maggio 1642: il pontefice chiede di trovare nella ricca biblioteca di Galileo delle opere di Federico II, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca, Lorenzo de’ Medici, Michelangelo, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, ecc.); del cardinale Bentivoglio a Balzac (24 marzo 1642: gli comunica che gran parte dei documenti di Galileo sono andati distrutti); ancora di Urbano VIII alla de Gournay (20 luglio 1642: esprime grande stima per Galileo in quanto erudito e letterato); sempre Urbano VIII al re Luigi XIII (20 settembre 1642: loda Galileo, “il più grande sapiente del secolo” per la sua battaglia contro i peripatetici e in favore della filosofia sperimentale!); di Luigi XIII a Gassendi (12 marzo 1633: chiede informazioni sulle accuse a Galileo, fatto di cui si dichiara sorpreso); del re Enrico IV a Galileo (10 novembre 1600: ringrazia Galileo per gli auguri fatti in occasione del suo matrimonio per procura a Firenze con Maria de’Medici); della stessa Maria de’Medici a Galileo (22 novembre 1600: lo ringrazia e gli fa inviare un ritratto di suo marito il re di Francia); ancora di Maria de’Medici a Galileo (2 luglio 1641: dall’esilio di Bruxelles gli esprime preoccupazione per il suo stato di salute), e poi ancora altre lettere di Maria a Galileo e ancora altre lettere di Luigi XIV (a Boulliau, a Molière, a Racine, a Cassini, sempre alla ricerca di documenti di Galileo o su di lui).

Verso la fine della seduta si depositava una corrispondenza di Martin, che tornando sulla lettera del primo gennaio 1638 di Galileo a Boilleau, in cui egli dice di non vedere di più con gli occhi aperti che con gli occhi chiusi, invitava a leggere l’intero testo, soprattutto il passaggio in cui lo scienziato aggiunge che “a causa della mancanza di luce io non posso più cogliere (percipĕre) bene ciò che mi scrivete, perché le dimostrazioni che richiedono l’uso di figure non possono essere per nulla essere comprese senza l’aiuto della luce, pertanto ciò che le mie orecchie hanno potuto sentire, l’ho accolto con il più grande piacere”. Chasles aveva sostenuto che il latino percipĕre significa distinguere, ma Galileo usava il latino con assoluta proprietà, e il senso del verbo è solo uno: non coglieva più le figure perché era cieco e non le poteva più vedere. Anche in altre lettere del 1638, citate da Martin, Galileo si lamentava chiaramente di non riuscire a farsi comprendere su alcune questioni matematiche perché incapace di tracciare le figure. Anche le testimonianze di Viviani e Bentivoglio, successive alla sua morte e autentiche senza alcun dubbio, parlano di un Galileo “cieco ormai da anni”.

Veniva poi comunicata una corrispondenza di Govi, che tornava a contestare l’autenticità delle lettere di Galileo presentate da Chasles in merito alla sua capacità di vedere, almeno da un occhio, fino a poco tempo prima della sua morte.

Il 10 agosto prendeva la parola Chasles, che faceva riferimento a una lettera di Volpicelli, diventato il suo principale alleato nella discussione, aggiunta nelle corrispondenze in fondo ai verbali della riunione. Volpicelli aggiungeva nuovi elementi a sostegno della sua tesi, e cioè che Galileo non era ancora completamente cieco alla fine del 1637. Si trattava di una lettera del 20 febbraio 1638 del genovese Pier Battista Borghi, amico di Galileo, in cui si legge che l’illustre chirurgo Giovanni Trullio di Veroli assicura che “Galileo senza dubbio resterà libero da questo fastidio in poco tempo”, per cui la malattia in quei giorni non era assolutamente grave. Lo stesso Borghi, il 3 luglio successivo scrive che la vista di Galileo è migliorata grazie all’applicazione di zucchero candito sugli occhi. Si trattava di documenti che smentivano completamente, secondo Chasles, le tesi di Martin e Secchi basate sulle lettere di Galileo già citate. Inoltre, in due lettere di Galileo a Padre Castelli e a Fulgenzio Micanzio si parla di una cura basata sull’astinenza dal vino e di osservazioni dello scienziato sulla faccia della Luna. Ciò provava, secondo Volpicelli, che Galileo esagerava a proposito del suo stato di salute.

Chasles commentava soddisfatto che lo studioso romano aveva visto giusto nel dire che Galileo esagerava sul suo stato di salute, perché 1) sperava ancora di essere rimesso in libertà, 2) voleva liberarsi da certe corrispondenze per potersi dedicare completamente alle sue ricerche.

Il geometra francese diceva poi di aver ricevuto il giorno precedente da Faugére il volume “Difesa di Pascal, e secondariamente di Galileo, Newton, Montesquieu, ecc. contro i falsi documenti presentati da M. Chasles all’Accademia delle Scienze” da lui scritto sulla vicenda. Si riservava di commentarlo dopo averlo letto attentamente, ma intanto annunciava di essere in grado di presentare all’Accademia non solamente delle lettere, ma delle vere e proprie memorie: alcune lettere di Luigi XIV e un libretto di 32 pagine dal titolo “Notizia riguardante l’illustrissimo Galileo”; una lettera di Urbano VIII a Luigi XIII, di dodici pagine, e un libretto di sedici pagine intitolato “Particolarità su Galileo e le sue opere”; alcune memorie di Galileo, in particolare un manoscritto di 40 pagine dal titolo “Copernico. Stato della scienza astronomica prima del suo sistema del Mondo”, oltre a minute di canzoni, sonetti, soggetti teatrali, ecc. che egli talvolta aveva tradotto in francese.

Immaginiamo lo stato d’animo di Chasles impegnato nella lettura dello scritto di Faugére nella settimana precedente la seduta del 17 agosto. E la rabbia con la quale si accingeva a preparare il suo intervento di risposta allo storico e diplomatico, oltretutto curatore delle opere di Pascal.

Nella seduta del 17 agosto Chasles esordiva dicendo che il testo di Faugére nulla aggiungeva al dibattito, se non ribadire una ingiustificata avversione nei suoi confronti. Poi riassumeva la questione delle lettere di Pascal dall’inizio, ribadendo la convinzione che fossero autentiche, e smentendo ancora una volta l’accusa di esibire i documenti a seconda della convenienza. Sosteneva poi che la questione della grafia era un falso problema, perché tutti i personaggi citati, compresi Pascal, Galileo, Newton, i re di Francia, ecc. facevano fare delle copie dei loro documenti, e come aveva fatto fare anche Desmaizeaux.

Riservava poi una stoccata a colui che ormai considerava un suo nemico personale, rimproverandogli due errori di interpretazione della scrittura di Pascal, poi riconosciuti dallo stesso Faugére, nell’edizione da lui curata nel 1844 dei Pensieri. Come poteva egli giudicare la veridicità della grafia? Come poteva affidare alla sola analisi grafica, dell’inchiostro, della carta, di certi lemmi usati, il giudizio su una scoperta il cui valore scientifico era fuori discussione? Se erano false le nuove lettere di Pascal da lui prodotte, perché dovevano essere vere quelle fino ad allora conosciute? Perché dovevano essere vere quelle degli illustri personaggi, politici, scienziati, sovrani, della stessa sorella, con i quali era in corrispondenza [si noti il ragionamento un po’ circolare]. Il 24 agosto, Chasles depositava una memoria dai toni ancor più risentiti contro Faugére.

In tutte le altre sedute dell’Accademia del 1868 l’affaire delle lettere di Pascal sembra dimenticato. Chasles partecipa regolarmente alle sedute tornando a fare il geometra, non senza presiedere la commissione che il 21 dicembre nomina Karl Weierstrass geometra corrispondente dell’istituzione.

Marco Fulvio Barozzi

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