La scienza espressa

Una breve storia dei buchi neri e della loro fine

di Stefano Liberati8 Luglio 2024 astrofisica, buchi neri, la scienza espressa

Ci sono poche cose nell’Universo affascinanti e inquietanti quanto i buchi neri. Nel corso degli anni sono diventati parte della cultura popolare, protagonisti di libri, articoli, film e canzoni. Estremi figli della plasticità dello spaziotempo introdotto dalla relatività generale di Einstein, sono regioni dalle quali nulla può sfuggire, nemmeno la luce. Pensate a un fluido che scorre verso un inghiottitoio: man mano che si avvicina accelera fino a raggiungere una velocità pari a quella del suono e oltre, diventando supersonico. Ogni onda sonora emessa nella regione supersonica, anche se diretta verso l’esterno, verrà trascinata verso l’inghiottitoio. Sostituite il fluido con lo spaziotempo e le onde sonore con quelle luminose e avrete una solida analogia di cos’è un buco nero.

Una volta formato, un buco nero continua a inghiottire tutto ciò che si trova nelle sue vicinanze, per sempre. Ma niente è eterno in natura. Quasi cinquant’anni fa, il grande fisico inglese Stephen Hawking dimostrò che i buchi neri non sono eterni perché la loro presenza destabilizza il vuoto quantistico. Quest’ultimo non è il “nulla” della fisica classica, il “το κενον” aristotelico, ma pullula di particelle “virtuali” che vivono nell’effimero spazio e tempo permesso dal principio di indeterminazione della meccanica quantistica, l’altro grande pilastro della fisica del XX secolo insieme alla teoria di Einstein.

Hawking mostrò che i buchi neri sono destinati a evaporare a causa di questa instabilità del vuoto quantistico, emettendo radiazione termica a una temperatura inversamente proporzionale alla loro massa. Tuttavia, questo processo avviene su tempi lunghissimi, proporzionali al cubo della loro massa, e la fine per la maggior parte di loro arriverà molto in là nel tempo, forse in concomitanza con la fine del nostro Universo.

Negli ultimi anni, però, sembra emergere una storia diversa, molto meno mite per il destino dei buchi neri. Per capire questa storia, abbiamo bisogno di altri due ingredienti: gli orizzonti interni e la singolarità. Gran parte della ricerca sui buchi neri si è concentrata sulla loro struttura esterna, ad esempio su come la materia può orbitare attorno a loro, o su come le perturbazioni del loro orizzonte degli eventi (il limite tra l’interno e l’esterno del buco nero) possano generare onde gravitazionali che ci rivelano molte informazioni sugli oggetti che le hanno emesse. Molta meno attenzione ha ricevuto l’interno del buco nero, giustamente, essendo causalmente disconnesso da tutto ciò che è fuori dall’orizzonte degli eventi.

Tuttavia, non siamo completamente ignoranti sull’interno del buco nero. Le equazioni di Einstein prevedono che un buco nero rotante, come quelli che meglio spiegano le nostre osservazioni astrofisiche, debba avere al suo interno un altro bordo, un orizzonte, che racchiude una singolarità. Nulla dalla regione singolare può passare oltre questo orizzonte interno e nessuna equazione fisica con dati iniziali fuori di esso può predire cosa accadrà oltre. Possiamo davvero considerare attendibile questa struttura interna? Partiamo dalla singolarità. Questo termine si riferisce a un’incognita: la singolarità non è una cosa, ma una non-cosa, una regione dove le equazioni di Einstein non possono descrivere uno spaziotempo. Penrose, già nel 1965, provò che, sotto assunzioni ragionevoli per la materia che conosciamo, è inevitabile raggiungere questo punto di rottura. Tuttavia, queste assunzioni vengono violate quando i fenomeni quantistici diventano significativi, cioè quando la materia, dopo aver attraversato l’orizzonte degli eventi, è compressa a densità tali da generare curvature nello spaziotempo che rivelano la sua struttura quantistica. In questo regime, ancora largamente ignoto, della gravità quantistica, si crede che le singolarità verranno risolte, curando la lacerazione dello spaziotempo e lasciando al buco nero un “cuore di tenebra” dove le nozioni di spazio e tempo possono continuare ad esistere. Questi buchi neri modificati sono detti regolari.

Per quanto riguarda gli orizzonti interni, la storia è ancora più interessante. Negli ultimi anni si è capito che la loro esistenza, prevista sia nei buchi neri rotanti di Einstein che nelle loro versioni regolari, non può essere duratura. Gli orizzonti interni tendono ad accumulare energia, con o senza effetti quantistici, modificando così lo spaziotempo. Senza invocare la meccanica quantistica, un orizzonte interno comporta sempre un’amplificazione esponenziale di perturbazioni, a meno che la sua gravità superficiale (il parametro che controlla la sua temperatura quantistica) non sia nulla. Anche in questo caso però, si ha una instabilità: gli stessi effetti quantistici che implicano la radiazione termica di Hawking prevedono infatti densità di energia esponenzialmente grandi all’orizzonte interno, fintanto che la temperatura di questo sia diversa da quella dell’orizzonte esterno.

L’effetto previsto è devastante: l’orizzonte interno del buco nero dovrà iniziare a evolversi a causa di questa accumulazione di energia su tempi scala molto brevi: dell’ordine della massa del buco nero (dell’ordine del tempo che la luce impiega per coprire una distanza pari alla sua dimensione). Tuttavia, non sappiamo come questa evoluzione finirà e se per capirlo sia necessaria la gravità quantistica. Inoltre, questa instabilità vale per un buco nero nel vuoto, mentre quelli che osserviamo sono immersi nella materia e continuamente perturbati da essa.

Possiamo ipotizzare che il punto finale di questa evoluzione sia un’esplosione, un oggetto compatto quasi come un buco nero ma senza orizzonti, o un buco nero con temperatura uguale per tutti i suoi orizzonti e senza singolarità. Se il tempo scala dell’esplosione è breve, possiamo escludere il primo caso, visto che osserviamo buchi neri su grandi tempi. Anche la seconda opzione sembra improbabile perché abbiamo buoni motivi per credere che oggetti così compatti avrebbero altre instabilità (sebbene queste ultime potrebbero forse agire su tempi scala lunghi). La terza ipotesi prevede buchi neri con orizzonti tutti alla stessa temperatura, possibile solo se questa è zero. Nel caso dei buchi neri rotanti della relatività generale, questo accade solo se gli orizzonti interno ed esterno coincidono e il buco nero ha la rotazione massima possibile. Peccato che gli oggetti finora osservati nell’Universo siano, quasi sicuramente, non massimamente rotanti.

Nel saggio scritto con i miei colleghi Francesco Di Filippo e Matt Visser, premiato dalla “Gravity Essay Foundation”, abbiamo avanzato l’ipotesi che lo stato finale dei buchi neri sia un nuovo tipo di buco nero estremale, caratterizzato da due o più coppie (interno-esterno) di orizzonti, tutti a temperatura zero, ma non necessariamente massimamente rotanti. Questi buchi neri potrebbero essere regolari, cioè privi di singolarità. Per trovarli, abbiamo generalizzato una classe di buchi neri rotanti simili a quelli della relatività generale, ma con orizzonti che soddisfano condizioni matematiche che assicurano la loro estrema freddezza. Se inserite nelle equazioni di Einstein, queste soluzioni richiedono una distribuzione non banale di materia/energia, che ipotizziamo sia un segnale degli effetti quantistici che portano a queste soluzioni non-singolari e stabili. In sintesi, le soluzioni da noi proposte sembrano immuni dalle instabilità incontrate in questo breve viaggio. Ma sono davvero stabili? E sono veramente la fine dei buchi neri? Solo il tempo potrà dircelo.

Stefano Liberati

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Dal nostro catalogo: I viaggi dell’Orsa Maggiore, Il più bel satellite della mia vita, L’Osservatorio Astronomico di Brera nel XX secolo, C’è vita nel Sistema solare?

Carrello
Torna in alto